A cura della Dott.ssa Avv. Simona Iovino, membro del Comitato Scientifico dell’Istituto Ellenico della Diplomazia Culturale con sede ad Ancona.
Come è noto ai più, il movimento del Rinascimento trasse e derivò tutto il proprio impulso intellettuale, nonché il suo vigore essenziale, guardando al passato.
Dominante si mostrò, a quell’epoca, una concezione “ciclica del tempo”, intesa come moto perpetuo scaturente da primitive età dell’oro della conoscenza – intesa come dominio di purezza e verità – a successive età bronzee e ferree.
Quella stessa età che verrà identificata secoli dopo da Mircea Eliade nel suo saggio intitolato “Il Mito dell’Eterno Ritorno”, e che si sostanzierà in una ulteriore distinzione concettuale tra visione demitizzata, attuata dalle società contemporanee oramai completamente desacralizzate e quella inerente le società arcaiche nelle quali la reiterazione del comportamento dell’uomo che riproduce archetipicamente quello del dio, consente la manifestazione in terra di una vera e propria ιερό φανείς, e dunque ne realizza quel legame profondo che lo lega alla sfera superiore divina.
In alcuni dei suoi libri, Eliade sviluppa in particolare uno studio comparativo del sacro e delle sue manifestazioni, operando non una storia sistematica delle religioni antiche, bensì una morfologia degli oggetti del culto (il Cielo, il Sole, la Luna, l’Acqua, e così via), le cui forme compaiono e si ripetono nel tempo, con le feste, e nello spazio, con i «centri del mondo», reinterpretando e riattualizzando i miti primordiali.
Qualunque manifestazione del sacro – che si può presentare in oggetti, persone o luoghi – è detta, nella storia delle religioni, “cratofonia” (dal greco kratos, potenza o potere, e phonè, voce, suono) o “ierofania” (dal greco hiero, sacro, e phainein, mostrare).
L’uomo si sente solidale con i ritmi cosmici: la storia sacra viene trasmessa dai miti ed è indefinitamente ripetibile.
I modelli delle istituzioni, le norme di condotta dell’uomo durante i secoli, si ritengono rivelati dall’inizio dei tempi e di origine sovrumana, tramandati da miti, ossia da archetipi e ripetizioni del sacro.
Il simbolo, il mito, il rito costituiscono un complesso sistema di affermazione ultima delle cose, una vera μετά τα ψιλικά.
L’oggetto o l’azione sacra acquistano, pertanto, un valore reale perché partecipano di una realtà che li trascende. Per esempio, una pietra diventa sacra perché costituisce una ierofania, oppure ricorda un atto mitico perché la sua forma ha un simbolismo.
L’oggetto diviene ricettacolo di una forza esterna, che lo differenzia dall’ambiente per significato intrinseco e valenza specifica.
L’uomo appartenente a civiltà arcaiche compie, perciò, atti e azioni già compiuti da archetipi mitici.
La sua esistenza è essa stessa ripetizione di gesti ed eventi avvenuti in “illo tempore”, laddove l’evento sacro originario diviene modello archetipico, così come le nostre azioni.
E, invero, il tema della ripetizione dell’archetipo era già presente nello stesso Platone. Infatti, egli fu filosofo della mentalità primitiva, tanto che la ripetizione caratterizza l’ontologia dell’uomo arcaico, che amplia la visuale di una semplice filosofia eraclitea elaborata sul concetto di ciclicità del tempo e inglobante in sé un eterno ritorno a modelli, azioni e archetipi in una totalizzante valorizzazione della metafisica umana.
Il tutto in una metafora magico-alchemica nella quale sia possibile intravedere una analogia assoluta con il simbolo da cui siamo partiti, ossia quello dell’Ouroboros: quel “serpens qui caudam devorat”, come solevano rappresentarlo i latini.
L’Uroboro o ouroboros (dal greco οὐροβόρος, dove οὐρά sta per “coda” e βορός sta per “mordace”, aggettivo riferito al ser- pente) stigmatizza perfettamente l’immagine di un serpente che si morde la coda e la inghiotte, fagocitando sé stesso.
Questa diffusissima figura simbolica rappresenta, infatti, sotto forma animalesca, l’immagine del cerchio personificante l’e- terno ritorno, che sta a indicare l’esistenza di un nuovo inizio che avviene – tempestivamente – dopo ogni fine.
In simbologia, del resto, il cerchio è anche associato all’immagine del serpente, che da sempre muta la propria pelle e quindi, in un certo senso, rinasce da sé stesso.
L’Uroboro rappresenta dunque il circolo, la metafora espressiva di una riproduzione ciclica; al contempo, la morte e la ri-nascita.
La fine e la creazione del mondo.
In epoca rinascimentale, pertanto, se da un lato, l’umanista – nel tentativo di recupero della letteratura e dei monumenti dell’antichità classica – prova la sensazione di fare “ritorno” ad un’aurea civiltà di gran lunga superiore alla propria, dall’altro, il Riformatore religioso torna allo studio e alla interpretazione esegetica delle Sacre scritture e degli antichi Padri, provando la sensazione di un “recupero” del genuino tesoro del Vangelo, rimasto sepolto sotto le macerie delle successive degenerazioni.
Il movimento che potremmo pertanto definire “di ritorno” del Rinascimento – quello dell’età dell’oro della magia – si basava tuttavia su un errore cronologico radicale.
Le medesime opere da cui infatti traeva ispirazione il mago rinascimentale, e che questi considerava di grande antichità, in realtà, erano state scritte tra il II e III secolo d.C. e non in tempi così pregressi.
Egli non si rifaceva, infatti, a una reale fonte di sapienza egiziana, ma risaliva semplicemente all’ambiente pagano del Cristianesimo primitivo: ossia a quella regione del mondo fortemente imbevuta di influenze magico-orientali e che aveva costituito la versione gnostica della filosofia greca.
Lo scriba degli dèi, depositario della sapienza, il dio ftoth, o fteuth era stato identificato dai Greci col dio Ermete e dotato, in alcuni casi, dell’epiteto di “ter maximus”, il tre volte grande (o tre volte reicarnato), nei confronti del quale lo stesso Marsilio Ficino crede di interpretarne fedelmente (nella sua traduzione dal greco del Corpus Hermeticum), la assoluta “origo et fons” della sapienza sacra.
Dal canto loro, i latini fecero propria questa identificazione di Ermete o Mercurio con ftoth.
In proposito, nel suo “De natura deorum”, Cicerone, a tal proposito afferma che sarebbero esistiti di fatto ben cinque Mercuri: l’ultimo di loro, dopo aver ucciso Argo, fu costretto a recarsi esule in Egitto, dove “dette agli Egiziani le leggi e le lettere” e assunse infine il nome di fteuth o ftoth.
Sotto il nome di Ermete Trismegisto si sviluppò, pertanto, una vastissima letteratura in lingua greca, in cui si trattava di astrologia e di scienze occulte, delle virtù segrete delle piante e delle pietre, nonché della magia naturale basata sulla conoscenza profonda di queste e sulla fabbricazione di talismani per attingere ai poteri delle stelle, e molto altro ancora …
Oltre a questi trattati o raccolte di formule per praticare la magia astrale, diffusi sotto il nome di “Hermetica”, si sviluppò a fianco di questi anche una interessante letteratura filosofica attribuita allo stesso nome venerato.
Vediamo di esaminare il contenuto precettivo di alcune opere.
Anzitutto sappiamo che l’Asclepius e il Corpus Hermeticum costituiscono i più importanti hermetica filosofici giunti fino a noi e che vanno probabilmente e indicativamente datati fra il 100 e il 300 dopo Cristo.
Secondo la visione di alcuni esimi studiosi, e benché tutte queste opere presentino una struttura pseudo-egiziana, esse conterrebbero, in verità, pochissimi elementi genuinamente egiziani.
Altri ricercatori, al contrario, giungerebbero ad ammettere in esse una certa spiccata influenza di credenze egiziane originali.
Sul punto, secondo un riepilogo che potremmo definire cauto, effettuato in merito dal Bloomfield, questi scritti costituirebbero in realtà il prodotto di neoplatonici egiziani profondamente influenzati da stoicismo, giudaesimo, teologia persiana e credenze indigene, oltre che, naturalmente, da Platone, e in particolare dalla sua opera Timeo.
Probabilmente esse costituivano la Bibbia di una religione misterica egiziana che, nel suo nucleo centrale, poteva farsi risalire al II secolo dopo Cristo.
La medesima teoria citata inerente il culto misterico, tuttavia, appare avversata dal Festugière nel suo “Rèvelation d’Hermès Trismègiste”, dotto studioso e scrittore più volte citato anche dalla F. Yates nei suoi saggi sulla materia.
Ad ogni buon conto, tali opere – come sopra ribadito – non furono certamente composte in età antichissima da un sacerdote egiziano di grande sapienza, come si credette erroneamente durante tutto il Rinascimento, bensì vennero compilate da vari autori sconosciuti, probabilmente greci.
A circa un secolo e mezzo di distanza, allorché Isac Causabon dimostrò nel 1614, inconfutabilmente, che questi scritti andavano datati a partire dal II secolo, divenne assodato per la maggior parte degli studiosi che la grande stagione della “tradizione ermetica”, per quanto fecondissima e stimolante, si era fondata su un equivoco oramai insostenibile.
Tuttavia, il “falso” documento consistente nel Corpus Hermeticum aveva nel frattempo dato vita alla più grande stagione dell’utopia magica di tutto il Rinascimento.
Le opere citate costituiscono un miscuglio, ossia una miscellanea di neoplatonismo e stoicismo, combinati con alcune influenze di matrice ebraica e probabilmente persiana.
In particolare, l’Asclepius si proporrà di descrivere la religione degli Egiziani insieme ai riti e ai processi magici per mezzo dei quali essi riuscirono a trasfondere le potenze del cosmo nelle statue dei loro dei, (ricordiamoci come questo trattato ci sia pervenuto dalla traduzione latina dello Pseudo-Apuleio di Madaura), mentre il mito neoplatonico del Pimander, la splendida pagina sulla creazione e sul destino dell’uomo che assume un’importanza decisiva per comprendere l’anima piu profondamente mistica della magia rinascimentale e che corrisponde al primo dei trattati contenuti nel Corpus Hrmeticum, – comprendente complessivamente 15 dialoghi ermetici, – descrive invece la creazione del mondo in termini parzialmente similari rispetto a quelli indicati nella Genesi.
Gli altri scritti si occupano, invece, dell’ascesa dell’anima attraverso le sfere dei pianeti, fino al supremo regno divino; oppure forniscono estatiche descrizioni del processo di rigenerazione per mezzo del quale l’anima spezza le catene che la collegano al mondo materico, assumendo in sé poteri e virtù divine.
Nella già citata opera del Festugerès, Rèvelation d’Hermes Trismègiste, lo stesso autore analizza la mentalità dell’epoca del II secolo d.C., in cui molto probabilmente si ritiene vennero scritti l’Asclepius e gli stessi trattati ermetici giunti sino a noi, così come contenuti nella raccolta del Corpus Hermeticum.
Con il raggiungimento del suo massimo culmine e diffusione, la “pax romana” si estendeva ormai su tutte le popolazioni dell’Impero, le quali si presentavano tra le più eterogenee, a mezzo di un efficiente governo gestito da una altrettanto efficiente burocrazia, in cui le classi colte avevano assorbito e fatta propria una cultura di tipo greco-romano, basata sulle sette arti liberali.
Nel mondo del II secolo gli uomini avevano ormai raggiunto il pieno e fermo convincimento (che poi erediteranno i dotti rinascimentali) che “l’antichità classica fosse sinonimo di assoluta “purezza e santità” e che i pensatori dell’antichità avessero posseduto una conoscenza delle divinità di gran lunga superiore rispetto a quella degli irriducibili filosofi razionalisti, loro successori.
Di qui scaturì anche la vigorosa rinascita – proprio in quest’epoca – di evidenti motivi pitagorici.
Essi, inoltre, avevano la netta impressione che tutto ciò che fosse remoto e distante possedesse un’aurea maggiore di santità; da cui scaturì il culto per i Magi persiani o gli astrologi caldei, la cui conoscenza veniva sentita improntata ad una maggiore religiosità rispetto a quella dei Greci.
Nel crogiolo dell’Impero, in cui tutte le religioni venivano tollerate, molte erano le occasioni per venire a conoscenza dei culti orientali: in questa età erano venerati soprattutto gli Egiziani, vigendo l’opinione dominante secondo cui l’Egitto costituisse la “fons et origo” di ogni scienza e che i maggiori filosofi greci vi si fossero recati e avessero conversato con i sacerdoti del luogo.
Questa fu l’opinione dominante diffusa nell’atmosfera spirituale del II secolo, che guardava alla conoscenza egiziana come a un’antica e misteriosa religione, fatta di profondità di conoscenze in capo ai suoi sacerdoti, i quali ultimi, a seguito della propria condotta di vita, – improntata all’ascetismo e alla meditazione – potessero, nei recessi più nascosti dei templi, praticare una potente forma di magia.
In tal modo l’Egitto e la sua religione magica vennero identificati con la religione ermetica del mondo.
Ben si comprende, dunque, come il contenuto degli scritti ermetici si prestasse a incoraggiare l’illusione del mago rinascimentale, convinto di disporre, grazie ad essi, di un documento misterioso e prezioso di antichissima sapienza, filosofia e magia egiziana.
Ermete Trismegisto – un nome mitico associato a una precisa categoria di rivelazioni filosofiche gnostiche, oltre che a formule e trattati magici – era, dunque, per il movimento del Rinascimento una persona reale, un sacerdote egiziano vissuto in una remota antichità e autore diretto di tali opere.
I frammenti di filosofia greca che egli rinveniva in esse – derivanti dall’oramai decaduto insegnamento filosofico diffuso nei primi secoli dopo Cristo – finivano per confermare il lettore rinascimentale nella convinzione di attingere a quella fonte di antica sapienza da cui Platone e gli altri filosofi greci avevano ricavato il meglio delle loro conoscenze.
Questo enorme errore storico era destinato a produrre risultati sorprendenti.
Era su questa base di eccellente autorità che il Rinascimento considerava Ermete Trismegisto una persona realmente vissuta in tempi antichissimi e autore di scritti ermetici, poiché tutto ciò era stato implicitamente creduto dai principali Padri della Chiesa, in particolare da Lattanzio e da Agostino d’Ippona.
Naturalmente a nessuno sarebbe potuto venire in mente di dubitare della retta interpretazione di questi due autorevolissimi scrittori e costituisce notevole testimonianza il fatto che lo stesso Lattanzio, scrivendo nel III secolo e Agostino nel IV, accettassero, entrambi e senza riserve, questa leggenda.
Nelle Institutiones di Lattanzio si trovano molte citazioni e riferimenti di Ermete Trismegisto; del pari, nel suo De ira Dei, affermerà che Trismegisto è molto più antico di Platone e Pitagora.
Il Sermo Perfectus o Parola Perfetta (traduzione corretta del titolo greco originale dell’Asclepius), in cui si parla della misteriosa descrizione del modo usato dagli Egiziani per fabbricare i loro “idola”, viene addirittura santificato perché sembra contenere – adire dello stesso Lattanzio – una profezia sul Figlio di Dio.
Disquisendo del Figlio di Dio come Parola creatrice, con citazioni dalle scritture, Lattanzio introduce anche una conferma pagana sottolineando che i Greci avrebbero parlato di Lui come del λόγος, e altrettanto avrebbe pertanto fatto Ermete.
Di fatto Lattanzio giudica Ermete Trismegisto come uno dei più importanti veggenti e profeti pagani, come colui che aveva previsto l’avvento del Cristianesimo poiché aveva parlato del Figlio di Dio e della Parola creatrice.
Dall’altro canto Agostino, pur confermando – con il peso della sua autorità – l’antichità remota di Ermete, e che lo stesso sarebbe vissuto molto prima dei saggi e dei filosofi greci (ossia che fosse di poco posteriore a Mosè), ne contestò intrinsecamente il brano contenuto nell’Asclepius, definendolo come idolatrico; in particolare attaccò Ermete per aver lodato le pratiche magiche con cui gli Egiziani infondevano gli spiriti aerei o daemones nelle statue degli dei, rendendole così, animate.
Intorno al 1460, un manoscritto greco venne portato a Firenze dalla Macedonia: ne era latore un monaco benedettino, tale Leonardo da Pistoia, uno di quei “messi di luce”, ossia portatori di luce e verità, impiegati da Cosimo de’ Medici per raccogliere antichi manoscritti.
Esso consisteva in una copia del Corpus Hermeticum, non del tutto completa poiché in realtà conteneva solo 14 dei 15 trattati costituenti l’intera raccolta.
Cosimo, pertanto, ordinò immediatamente a Marsilio Ficino di procedere nella traduzione dalla lingua greca in quella latina, con l’espressa indicazione di dare assoluta preminenza a tale compito rispetto a quelli già in essere e riguardanti in particolare la traduzione di opere filosofiche greche, nella specie: La Repubblica e Il Simposio di Platone.
Sarà, del resto, lo stesso Ficino a rendercene edotti, a mezzo del contenuto della dedica fatta a Lorenzo de’ Medici sul commento a Plotino, in cui descriverà – nel suo “argumentum” – proprio l’impulso dato agli studi greci dall’arrivo in Firenze di Gemisto Pletone e di altri dotti bizantini in occasione del Concilio, e di come lo stesso Cosimo gli avesse precedentemente commissionato, personalmente, la traduzione dei tesori della filosofia greca giunti allora in Occidente dalla lontana Bisanzio.
Sappiamo per certo, quindi, che Cosimo gli aveva affidate le opere di Platone al fine di tradurle, sebbene nel corso del 1463 avesse deciso che Ficino avrebbe dovuto dare, come ricordato, la massima preminenza alla traduzione del trattato ermetico appena rinvenuto in Macedonia, attribuito ad Ermete.
Ficino, così, in pochi mesi, riuscirà a portare a termine la traduzione: a quell’epoca l’Egitto veniva prima della Grecia, Ermete, prima del divino Platone!
Il rispetto o “timor reverentialis” di quell’epoca per tutto ciò che fosse antico, originario remoto, e quindi da considerarsi più vicino alla Verità Divina, conduceva come logica conseguenza quella di considerare il Corpus Hermeticum un’opera da tradurre e analizzare prima della stessa Repubblica o del Simposio.
Fu così che – una volta ultimata la suddetta traduzione e il commento – Marsilio volle intitolarla con il nome di Pimander, nome che, nonostante comparisse nello stesso Corpus Hermeticum come titolo attribuito al primo trattato, si volle estendere a tutto il Corpus, ossia ai 14 scritti del manoscritto greco.
Ficino dedicò, quindi, la traduzione all’illustre signore di Firenze, Cosimo de’ Medici, e la dedica (che chiamò – come già ricordato – Argumentum) rivelò lo stato di sudditanza intellettuale e di massimo stupore e meraviglia con cui egli si era avvicinato a questa meravigliosa rivelazione di antica sapienza egiziana.
E non solo! Rivelò anche a quale rilevanza lo stesso filosofo neoplatonico annettesse ai testi ermetici; lo si intuisce subito dal medesimo commento, consistente in una lettera dedicatoria a Cosimo, in cui inizia a tracciare una sorta di genealogia dell’Ermete Termaximus, affermando testualmente che: “Nel tempo in cui nacque Mosè fioriva l’astrologo Atlante, fratello del fisico Prometeo e zio materno di Mercurio il Vecchio, il cui nipote fu Ermete Trismegisto”.
Così prendeva le mosse il commento ficiniano, ossia con una visione leggermente distorta rispetto a quella indicata dalla genealogia agostiniana elaborata su Ermete, che invece collocava quest’ultimo in una remota antichità, quasi in un contesto mosaico.
In questa prefazione al Pimander, Ficino espone per la prima volta la sua genealogia su Ermete, antico sapiente, elaborata non tanto sulla base di indicazioni tratte da Gemisto Pletone (che non fa alcuna menzione di Trismegisto), quanto su quelle dei Padri della Chiesa, quali Agostino, Clemente e Lattanzio. C’è, quindi, una prisca theologia (1) che ha inizio da Ermete e culmina nel divino Platone.
Ficino, dunque assegnerà ad Ermete l’appellativo di “fons et origo” di una grande tradizione sapienziale che durava ininterrotta sino a Platone.
L’argomento poi terminerà con una nota estatica, indicativa di quelle iniziazioni gnostiche di cui si occuperanno gli Hermetica.
Così si esprimeva ancora Marsilio nel suo argumentum al Corpus Hermeticum.
Secondo la visione ficiniana, nella elaborazione di una prisca theologia, Ermete compare sempre al primo posto o al secondo dopo Zoroastro (il primo prisco theologo secondo Pletone); a seguire Orfeo, Aglaofemo (iniziato agli insegnamenti sacri di Orfeo), Pitagora e Filolao, maestro del divino Platone.
Il collegamento storico, che si fa garante della continuità teologica – una sorta di trait-d’union – tra i primi teologi e Platone, appare pertanto formalmente compiuto.
Proprio Platone, pertanto, da cui aveva preso le mosse la medesima speculazione teologica dei Padri della Chiesa e che aveva suggestionato – in qualche maniera – la “pars maior” di tutta la filosofia medievale, è posto alla fine di un iter teologico che anticipa la venuta di Cristo; cammino originatosi proprio da Ermete che, a detta di Lattanzio, profetizzò alcune delle fondamentali verità cristiane e che secondo Agostino: “Questo Ermete dice di Dio molte cose secondo la verità”.
A differenza di Gemisto Pletone che aveva posto a capo della più remota sapienza teologica Zoroastro, Marsilio Ficino, intento a cristianizzare la prisca theologia contro la paganizzazione del Cristianesimo (2), punta tutto su Ermete Trismegisto, facendone un autentico profeta dello stesso cristianesimo e affidandosi alla visione di Lattanzio, che lo aveva posto tra le Sibille e i Profeti della cristianità.
E questa operazione risulterà così ben riuscita che, intorno al 1480, un mosaico ritraente Ermete verrà posto proprio all’ingresso del Duomo di Siena, nell’atto di indicare a Mosè una tavola in cui sono riportate le parole del Pimandro: “Deus, omnium creator secum Deum fecit visibilem et hunc fecit primum et solum quo oblectatus est et valde amavit proprium Filium”.
E sotto alla targa del titolo del riquadro musivo: “Ermes Mercurius Trismegistus Contemporaneus Moysi”.
Ora, non sarebbe possibile comprendere la cultura del Rinascimento senza tener conto dell’atmosfera magico-esoterica e simbolica che avvolse l’intera Europa tra la metà del XV e gli inizi del XVI secolo.
Il pensiero ermetico impregnò di sé l’arte, la letteratura, le scienze, la filosofia, la musica e non solo. Ogni manifestazione della vita privata e sociale ne fu pervasa: dai carri allegorici che trionfavano durante le splendide feste di piazza agli emblemi decorativi di oggetti o spazi del quotidiano, sino alle immagini simboliche per uso didattico o morale o alle carte da gioco imbevute di un linguaggio polivalente, ambiguo, fondato sulla “coincidentia oppositorum” in un caleidoscopico fluire di emo- zioni ed immagini.
Nell’ambito del pensiero ermetico nessuna regola appare esistere più; l’incoartabile eros del Pimandro tra uomo e Natura fluisce senza limiti e il ritorno all’Uno-Tutto si ottiene per eliminazione del principio logico di identità, così che la medesima contraddizione viene accolta in quanto allusiva di enigmi che scaturiscono da polimorfi significati di segni, i quali sembrano disvelare la divinità stessa attraverso messaggi criptati, occulti e nascosti, generatori di un’epifania di soprannaturali visioni, di oracoli e di sogni.
L’unico principio metodologico ed epistemologico che guida il lavoro del naturalista – cultore di magia naturale – è il solo concetto di “analogia”, che si pone come libera associazione di idee e che paradossalmente si rifà, seppur in un senso mutato, a una visione della dottrina della scolastica della cosiddetta “adaequatio”, intesa come legge del pensiero, e al contempo norma universale che regola tutti gli esseri.
L’analogia, pertanto, non richiederebbe un metodo, poiché essa stessa si porrebbe come “il metodo”, che si fonderebbe sulla rottura di ogni schema come profonda ribellione al pensiero disciplinato e al libero e incontrollato fluire della metafora.
Sullo schema concettuale della “Divina Analogia”, il XVI secolo costruirà i predicati base della sua teoria fisico-naturalistica.
Ora, facendo un passo indietro, va ribadito come, in origine, quando le credenze dell’Egitto entrarono a far parte dell’orizzonte culturale greco – attraverso la progressiva ellenizzazione del mondo antico – e si sviluppò la nascita di una nuova letteratura a sfondo magico e astrologico (la cui dottrina sottesa derivava dal divino Ermete), questa stessa – tuttavia – si differenziasse sostanzialmente dai testi astronomici tipici della tradizione greca, in quanto si fondavano su di una “ rivelazione divina” piuttosto che sulla osservazione scientifica dei cieli, in aggiunta alla circostanza ulteriore di voler custodire, e celare al proprio interno, una vera e propria “scienza occulta”.
Ogni scoperta veniva percepita come rivelazione del λόγος divino, la cui apprensione da parte dell’uomo avrebbe costituito, di per sé, un percorso di avvicinamento alla divinità.
Questa letteratura sapienziale trovo massima collocazione ed eco all’interno del movimento gnostico che caratterizzò i primi secoli dell’era cristiana, ossia il “cristianesimo primitivo”.
Le prime opere redatte in lingua greca, che nell’Egitto di età tolemaica vennero attribuite a Trismegisto, riguardavano le scienze occulte, caratterizzate da un sapere pratico, ma poiché Ermete era considerato “colui che sa”, a lui erano attribuite le conoscenze di insegnamenti filosofici.
Si trattava di una filosofia molto sincretica, infarcita di antiche credenze, desunte dalla religione egizia oramai in forte decadenza, ma che rimase preservata nell’ambito della produzione letteraria magico-alchemica e astrologica ancora presente all’in- terno degli antichi templi.
Si ritiene, infatti, secondo una visione e un orientamento consolidato, che internamente alla gnosi ermetica potessero coesistere due anime distinte: l’una, magico-popolare, che produsse manuali di magia pratica, e l’altra, più dotta ed elevata, inerente argomentazioni filosofiche e teosofiche.
Sebbene tali due correnti, all’interno della gnosi ermetica, non vennero mai, sostanzialmente, distinte, di fatto esse si presentarono unite e congiunte in una sorta di osmotico rapporto, stante la tensione di esperienze spirituali più elevate che la medesima pratica magico-ermetica tendeva a raggiungere come meta ultima.
D’altra parte, la letteratura spiccatamente filosofica necessitava di conoscenze tecniche approfondite, seppur subordinate a un’ampia teoresi. Alla luce di ciò, possiamo considerare l’ermetismo – più che come un rigoroso e univoco sistema filosofico – un vero e proprio cammino sapienziale dell’uomo, che lo avrebbe condotto alla sua immortalità formato da una organica sinergia tra prassi e teoresi, dove meditazione e pratica magica costituivano le componenti ineludibili di una iniziazione teosofica.
Tuttavia, la presenza del λόγος nella sua speculazione filosofica – la cui manifestazione visibile è Ermete – nella tradizione ermetica non coincide con quella elaborata dalla tradizione filosofica classica; il logos funge solo da supporto al Νους, ossia all’Intelletto intuitivo e soprarazionale, unico e vero agente della conoscenza, che attraverso la visione dell’immagine di Dio nel creato, riesce a cogliere e comprendere Dio in sé.
L’unione mistica con Dio consiste, in tale sistema, nel saper “riconoscere” la propria divinità, la propria eternità.
Se l’anima irrazionale è sottoposta al dominio degli Arconti e dei Decani, i quali le impongono di vivere volta dalle passioni, quella intellettiva-intuitiva è in grado di superare tali passioni, orientando l’uomo verso la sua vera origine: il Dio-Padre.
Ciò avviene attraverso complesse pratiche, una costante meditazione d’una estatica contemplazione del proprio sé, al fine di raggiungere la sfera più alta dove dimora l’essere divino, ossia l’Uno-Tutto o “Materia Prima”, priva di forma, da cui promanano nel cosmo, le tre emanazioni principali:
- L’Intelletto agente o Spirito Universale;
- L’Anima Universale o Anima Mundi;
- La Materia o Natura Naturata (gli elementi e gli elementata).
Tutta la visione ermetica si basa su una analogia fondante: quella esistente tra l’Universo dispiegato, il “Macrocosmo” e l’Uomo, il “Microcosmo”, posti in costante relazione dallo stesso Intelletto Universale, prima emanazione divina.
L’uomo, in quanto partecipe “per natura” o natura l’iter del “pneuma” divino o intelletto universale, si trova ad essere “figura”, immagine del cosmo e supporto perfetto dello spirito; o ancora, “luogo privilegiato della sua attuazione”.
Pertanto, nell’uomo (inteso come luogo privilegiato della manifestazione dell’intelletto universale o spirito divino), è presente un’anima soggettiva abitata da questo intelletto, che è “datore di conoscenza”, portatore diretto del Verbo divino, ossia del λόγος.
In effetti, l’Intelletto universale – costituendo pura polarità conoscitiva dell’esistenza – si presenta come “non oggettivabile”, ossia non passibile di conoscenza diretta, ma premessa Epifania di ogni conoscenza ed esperienza. Incoglibile attraverso la dialettica razionale, esso è però intuibile attraverso l’Intelletto soggettivo che si sostanzia in quella facoltà intuitiva dell’uomo: la ragione discorsiva. E coglie solo l’ombra, i simboli che narrano le sue potenzialità noetiche.
L’incontro con il Nous (νόυς) produce nell’uomo un nuovo genere di conoscenza che, riferito alla pratica magica, rende concreta una nuova comprensione della Natura, non solo limitata alla constatazione di semplici fatti sensoriali, ma estesa alla comprensione degli archetipi eterni presenti nel mondo e delle reciproche “interconnessioni simpatiche”.
Nella scienza ermetica (similarmente che in Alchimia, la quale costituisce la scienza ermetica per antonomasia, detta anche Ars Regia), non si parla mai di Terra, Aria, Acqua e Fuoco come fossero i semplici elementi materiali costitutivi degli esseri, ma piuttosto come modi di esistenza della materia stessa, ora solidi, ora gassosi, ora liquidi, ora ignei.
Dallo Spirito Universale promana, come già spiegato, l’Anima Mundi, un’entità che costituisce potenzialità pura e oggettivazione del medesimo spirito. In che cosa consista, lo apprendiamo dalle glosse al Timeo di Platone, redatte da Guglielmo di Conches nel XII secolo: “Anima Mundi est naturalis vigor rerum quo quidam res habet, tantum movere, quidam crescere, quidam sentire, quidam discernere”.
In linea di principio, dunque, lo spirito svolge l’azione di “polo essenziale” o “archetipale” dell’Anima; in altre parole, costituisce la sua “forma”, mentre l’Anima del Mondo costituisce il “polo sostanziale” dello Spirito, la sua “materia”, al pari della luce che viene intercettata da una superficie riflettente.
L’incessante movimento di polarizzazione che caratterizza lo Spirito Universale, generando l’Anima Mundi, fa sì che essa si incarni nella materia, donando vita e movimento all’intero cosmo.
La corporificazione dello Spirito sarà, pertanto, il fine ultimo e la principale fatica, od opera teorica e pratica, dell’ermetista. Se ne otterrà l’Elisir o la Pietra Filosofale.
Concludendo, possiamo affermare come l’ermetismo certamente non possedeva l’originalità né delle grandi gnosi religiose, né dei culti misterici dell’antica Grecia, né tantomeno della tradizione filosofica classica.
Tuttavia, esso seppe rivelare un “metodo di pensiero” che conquistò lo spirito delle genti vissute nei primi secoli della nostra era e che si ripresentò fortemente nell’immaginario degli uomini del XII, e soprattutto XV e XVI secolo.
Gli Hermetica sono testi essenziali per la comprensione pro- fonda delle diverse evoluzioni del Neoplatonismo e degli strati più nascosti del neo-cristianesimo poiché le correnti di pensiero in essi contenute rispondono a un medesimo immaginario e rispondono agli stessi bisogni e istanze reali che furono tipiche della sensibilità dell’epoca, ossia il desiderio e la tensione verso una sorta di certezza rivelata, la preoccupazione per l’anima e la sua salvezza, una considerazione del mondo in rapporto al destino dell’anima stessa e viceversa, e – da ultimo – il desiderio di acquisire un sapere esoterico profondo e legato alla tradizione più risalente.
- La Prisca theologia è una dottrina nata a Firenze nel tardo XV secolo che ritiene che esista un’unica vera teologia che attraversi tutte le religioni e che essa fu donata da Dio all’uomo nei tempi (Nota 214 della raccolta).
- Aldo Paolo Rossi, “Marsilio Ficino: dalla cristianizzazione della magia alla magicizzazione del cristianesimo”. (Nota 215 della raccolta).
Testo incluso nella raccolta “Atti e Pensieri dell’Uomo” a cura di Filippo Grammauta, Quaderni dell’Accademia Templare- Templar Academy di Roma, Luglio 2020, Edizioni Tipheret, Roma.
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