a cura di Massimo Lopez, membro del Comitato Scientifico dell’Istituto Ellenico della Diplomazia Culturale con sede ad Ancona.
Che cos’è il genio? Dal latino Genius indicava una specie di divinità che tutelava un individuo, una famiglia, un luogo (genius loci, genius familiaris), nella modernità indica una forza astratta che ispira risoluzioni, ancora: un talento perfetto, una indole propria (un genio per gli affari, per la musica…), una potenza creatrice propria di individui eccezionali che vedono oltre i loro contemporanei e raggiungono altezze di pensiero, profondità intuitive e creatività che spazia nell’arte come nella scienza, nella filosofia, etc.
Alla radice della parola “in-gegno”, da cui ingegnarsi, trovare soluzioni che ci riconduce a una delle qualità peculiari di Odisseo l’eroe omerico più “umano”, indicato con l’appellativo di polytropos “dal multiforme ingegno”.
Quindi, entità divina o qualità umana?
Nella letteratura della Grecia antica esiste un termine arcaico, usato con variegati e affascinanti significati con il quale ha un collegamento: “il daimon” in greco δαίμων, probabilmente l’etimologia, dal verbo greco “δαίω” significa “dispensatore” del destino, ma anche essere divino e spirito guida. Per Socrate è una voce che, sino da fanciullo, sente dentro e che lo guida. Più anticamente, in Esiodo, sono esseri “vestiti di aria nebbiosa”, dispensatori di ricchezze. Nei misteri orfici è l’essenza stessa dell’anima racchiusa nel corpo da cui cerca di liberarsi. Eraclito, “l’oscuro” decreta: “ήθος ανθρώπω δαίμων” (daimon /dio per l’uomo non è altro che il suo carattere). Platone, nel Simposio, fa spiegare a Socrate da una donna “Diotima”, che Eros è un grande daimon, intermediario tra uomini e dei, figlio di Penia (Povertà) e Poro (Desiderio). La parola “eudemonia” (ευδαιμονία), dal greco “ευ” (bene) e “δαίμων”, indicava la ancor più sfuggevole felicità; in senso lato significa “essere in compagnia di un buon demone”, come indicherà poi lo psicologo junghiano J. Hillman, la felicità è realizzare il nostro “daimon”, portatore della nostra unicità.
Tra dio e uomo, tra destino e realizzazione di noi stessi, da segreto della nostra felicità a espressione potente dell’ingegno creativo, cos’è dunque il Genio?
Un valido aiuto alla sua comprensione potrebbe venirci da Lui, da colui che più di ogni altro consideriamo “il Genio” ovvero Leonardo Da Vinci; osservando alcune sue singolari ed eccezionali qualità che, secondo me, svelano la sua “genialità” e magari aiutano noi a scoprire e ad entrare in contatto con il nostro daimon.
Spirito Libero
Leonardo visse nel pieno del Rinascimento Italiano, nell’ epoca del mecenatismo della magnificenza, fra le potenti signorie del tempo, eppure riuscì a mantenere, grazie soprattutto al suo straordinario carisma, un certo grado di libertà; riuscirà a non essere solo un cortigiano e operare praticamente senza padroni, ma propriamente con estimatori. Nasce il 15 aprile 1452 ad Anchiano (Vinci) a una cinquantina di chilometri da Firenze, da Ser Piero Da Vinci notaio e Caterina, donna di modeste origini di cui, a parte il nome, non si sa praticamente nulla. Leonardo è il prodotto di una relazione illegittima, per cui non potrà ricevere una istruzione accademica; non conoscere la lingua dotta, il latino, significava non accedere ai testi classici e non poter appartenere alla corporazione paterna; sarà un autodidatta, per questo nel tempo si autodefinirà, forse non senza una punta di orgoglio, “Omo sanza lettere”. Si può presupporre che il piccolo Leonardo ebbe una infanzia lieta; nato praticamente in campagna, la sua istruzione fu affidata al nonno e allo zio, è facile credere che all’irrequieto pargolo fu lasciata una naturale libertà e che trovò un ambiente ideale per sviluppare la propria personalità e sconfinata ansia di sapere. Troviamo conferma indiretta di questo in uno dei suoi racconti che rivela essere chiaramente autobiografico: narra di una pietra che stava tra le erbette e i fiori e che vedendo le sorelle più in basso nel selciato di una strada tutte vicine, volle rotolare da loro per poi sperimentare il “continuo travaglio” di essere sottoposta alla pressione delle ruote dei carri, dei ferri dei cavalli, coperta di fango o sterco, per rimpiangere poi il luogo tranquillo da dove proveniva; metafora dedicata a quelli che lasciano la serena campagna per la opprimente città. Il mondo dei bambini è un mondo totemico/animico dove tutte le cose hanno un’anima, dice Pablo Neruda in una sua famosissima poesia: “Il piede del bimbo ancora non sa di essere piede, vuol essere farfalla o mela, ma poi i vetri e le pietre, le scale, i sentieri della terra dura, vanno insegnando al piede che non può volare, che non può essere frutto rotondo sul ramo”. La mente di un bambino si sviluppa in due direzioni, che potremo chiamare, una personale/soggettiva e l’altra impersonale/oggettiva, la prima serve per imparare cose come usare la forchetta, dire grazie, ad allacciarsi le scarpe, etc. L’altra fa domande del tipo: “perché quel signore è vecchio?”, “perché esiste il mondo?”, “perché piove?” e via dicendo. La soggettiva riceverà istruzioni e alimento praticamente tutta la vita, alla impersonale non si riuscirà mai a rispondere in maniera soddisfacente, anzi, spesso il bambino si renderà conto di creare imbarazzo, per cui normalmente smetterà di fare domande e alimentare quel tipo di pensieri. Considerando la vita di Leonardo si potrebbe dire, al contrario, che abbia conservato vivissima tale attitudine, per questo Freud, suo ammiratore, nel saggio sul Maestro scriverà: “Il grande Leonardo, a ben vedere, rimase per tutta la vita per più versi infantile.” Prosegue poi: “Continuò a giocare ancora in età adulta e anche per questo apparve talora inquietante e incomprensibile agli occhi dei suoi contemporanei.” Leonardo non scambiò la sua libertà di pensiero e di sentire per la accettazione degli altri, scegliendo e difendendo la sua preziosa libertà, sua e del suo genio. “E mostrollo che spesso passando dai luoghi dove si vendevano uccelli, di sua mano cavandoli di gabbia e pagatogli a chi li vendeva il prezo che ne era chiesto, li lasciava in aria a volo, restituendoli la perduta libertà”. (Vasari “Le Vite”).
Percezione, vedere con gli occhi del genio
Leonardo si distingue soprattutto per essere uno straordinario disegnatore: accurato, preciso, attentissimo ai dettagli, i disegni dei suoi innumerevoli appunti testimoniano una acutezza visiva impressionante, nei particolari del movimento delle piume degli uccelli in volo, vi sono impressi dettagli che sembrano catturati in slow motion.
Quando Ser Piero vide l’attitudine del giovane per il disegno lo fece entrare in una delle più prestigiose botteghe d’arte di Firenze, dal maestro Andrea del Verrocchio, curiosamente così soprannominato da Vero Occhio. Il Vasari ci racconta che quando vide dipingere Leonardo lasciò i pennelli per sempre. Quel laboratorio, crogiolo di straordinari talenti, Botticelli, Perugino, Ghirlandaio, solo per citarne alcuni, fu per Leonardo una fenomenale fucina di apprendimento di attività poliedriche, oltre la pittura e scultura nelle varie forme, anche ingegneria, architettura, oreficeria e tanto altro. Il talento di Leonardo emerge precoce, le cose da lui dipinte, rivelano una propria inconfondibile visione e una comprensione profonda della percezione: “…sì che ella pareva più viva che la vivezza.” (Vasari “Le Vite”).
Quando noi vediamo un oggetto, crediamo immancabilmente che ciò che vediamo sia la realtà, per lo più non siamo consapevoli che l’immagine è una elaborazione complessa della nostra mente dove intervengono diversi e svariati fattori, dal nostro stato d’animo del momento, alle nostre aspettative a elementi propri del nostro carattere, della nostra eredità culturale, etc. Leonardo con abilità insuperata, crea immagini con linee appena accennate e passaggi di colore morbidissimi, soprattutto nei punti chiave dove si cela il segreto dell’espressione, creando personaggi vivi e presenti ma al contempo eterici e lontani, incanta così lo sguardo e lo lascia in un enigmatico disorientamento; altresì la nostra percezione delle cose è conseguente allo sfondo in cui si trovano, un punto bianco in uno sfondo bianco non è percepibile, gli sfondi dei quadri di Leonardo sono piccoli autentici miracoli, dai nerissimi dei suoi ritratti, che esaltano il soggetto, alla sua famosa tecnica dello “sfumato” con la quale crea paesaggi naturali che sembrano appartenere ad altre dimensioni. Leonardo non solo dipinge, ci invita ad entrare nel suo mondo.
Si spinge fino a dipingere l’invisibile: nella “Dama con l’ermellino”, Leonardo ritrae una amante di Ludovico il Moro, suo magnate. Sia la graziosissima dama che il suo curioso animaletto vengono colti nel movimento repentino di girarsi alla loro sinistra, evocando la presenza non ritratta del principe stesso. Nel Cenacolo crea una prospettiva elaborata in continuazione con l’ambiente reale del refettorio, perché i monaci si sentissero coinvolti nell’ultima cena con Gesù; il punto di fuga si trova in corrispondenza del volto del Cristo, intorno una dinamica geometrica; gli apostoli sono disposti a tre a tre, facendo percepire comunque un ordine e una armonia nel tumulto che si crea al momento dell’incredibile annuncio: “Uno di voi mi tradirà!”.
Da solo, al centro, disegnando con la sua figura a braccia aperte, un triangolo rivolto verso l’alto, Gesù lascia sentire tutta la sua solitudine nell’essere incompreso, sentire nel quale probabilmente, lo stesso Leonardo vi si immedesima: “Per il che si vede nel viso di tutti loro (gli apostoli ) l’amore, la paura e lo sdegno, o ver il dolore, di non potere intendere lo animo di Cristo.” (Vasari “Le Vite”).
Interesse Omnicomprensivo
Esiste un tema o una cosa più interessante di un’altra? Apparentemente sì, ogni momento scegliamo su cosa proiettare la nostra attenzione, cose che suscitano il nostro interesse, altre meno o che addirittura ci annoiano, ma se per qualche ragione abbiamo la opportunità di conoscerle un po’ più a fondo, troveremo sempre qualcosa di interessante, da uno spillo allo Space Shuttle, tutto è degno di interesse quando ci svela la sua natura o la sua storia e noi abbiamo un minimo di pazienza per osservare o ascoltare. Così è come se si aprisse un mondo, nel nostro mondo. Qual è dunque la chiave dell’interesse? Leonardo provava interesse per qualsiasi cosa, i suoi appunti sono pieni di studi sulla realtà che lo circondava a 360°, le tematiche più disparate lo appassionavano profondamente. Come scatta quindi la molla dell’interesse? Quando sentiamo che quel tema o quella cosa ci coinvolge, quando troviamo un collegamento, un nesso, una relazione, etc. Il genio sente di far parte di tutto ciò che lo circonda, ha conservato una piena connessione interna, ha salvaguardato dentro di sé la consapevolezza che il suo piede possa essere anche farfalla o mela. “Ogni cosa vien da ogni cosa, e d’ogni cosa si fa ogni cosa, e ogni cosa torna in ogni cosa…”. (L.D.V.) Dal volo degli uccelli ai fossili delle rocce, dal telaio meccanico alle famose macchine da guerra, ingegni idraulici di ogni tipo e macchine volanti, strumenti musicali e scenografie teatrali, l’anatomia umana e il segreto dell’anima, una visione così ampia, un’ansia di comprensione così vasta, una insaziabile sete di conoscenza e di bellezza, che non potremo mai chiamare solo curiosità. “Naturalmente li omini boni desiderano sapere”. (L.D.V.)
Intus Legere, l’intelligenza del genio
Se appare difficile definire cosa sia genio, altrettanto non facile è definire cosa sia intelligenza. Se ci atteniamo al suo significato letterale è la capacità di vedere sotto la superficie, dentro le cose, dietro le apparenze, in questo Leonardo fu scrutatore instancabile. La Firenze rinascimentale fu crogiuolo di intelligenze sopraffine, ricettacolo filosofico del pensiero classico e umanistico, nel XV secolo “fiorì”, rivelando uno degli ambienti più colti e completi d’Europa; tutto questo fu favorito dalla caduta di Costantinopoli, la quale portò ad emigrare in Italia dotti bizantini, con il loro bagaglio di testi, conoscenze e conseguente reintroduzione della lingua greca. In questa nuova culla del sapere si crearono due principali correnti, una più filosofica/platonica e una più aristotelica/sperimentale (non è un caso che Raffaello mise al centro della famosa Scuola di Atene proprio Platone e Aristotele, indicando l’alto, il primo, con la mano verso il basso, il secondo). Leonardo si formò in questo straordinario ambiente e fu “notomista”, dissezionò svariati cadaveri, sia animali che umani, pratica che all’epoca non doveva essere affatto piacevole e vista con diffidenza, per rendersi conto con i propri occhi, di cosa il corpo contiene e del suo funzionamento, volle vedere “dentro” ciò che dipingeva e lo raffigurò poi magistralmente nei suoi dipinti. Nei suoi disegni tecnici possiamo ammirare la visione completa di un macchinario con la tecnica dell’immagine esplosa di sua invenzione (usata ancora oggi) dove si può ben apprezzare nello stesso tempo, le parti e il complesso della macchina stessa; come ogni genio possiede poi, la capacità di considerare il progetto in tutta la sua interezza: “Oimè costui non è per far nulla, da che comincia a pensare alla fine innanzi il principio dell’opera” (Vasari “Le Vite”). Leonardo considerava la vista come il senso più prezioso e il mezzo migliore per la esplorazione delle cose, la natura come sommo riferimento, l’esperienza come ultima maestra “La sapienza è figliola della sperienza”. (L.D.V.) Per questo è stato considerato precursore del metodo scientifico/sperimentale; ma nel genio scienza/arte/filosofia si intrecciano senza confondersi, lo sguardo del filosofo va verso le cose ma si riflette anche nel mondo interiore, all’interno di una realtà dinamica in trasformazione che evolve e fluisce, non è mai statica, mai solamente meccanica ma viva e vitale: “Muovesi l’amata per la cos’amata come ‘l senso alla sensibile e cho’ secho s’unisce e-ffassi una cosa medesima l’opera è la prima chosa che nassce dell’unione”.(L.D.V.) Sono sicuro che chi conobbe Leonardo fu affascinato soprattutto dal suo essere filosofo, questo spiegherebbe perché Raffaello lo dipinse proprio come Platone. L’intelligenza del genio nasce dalla visione unanime e sensibile delle cose: “…perché invero il grande amore nasce dalla gran cognizione della cosa che si ama, e se tu non la conoscerai, poco o nulla la potrai amare”. (L.D.V.)
Genio e Maestria
Nel dicembre del 1500 Raffaello da Urbino (genio della pittura) ricevette uno dei suoi primi incarichi a Città di Castello; interessante e curioso che nel contratto egli venga registrato come “Magister”, essendo appena diciassettenne e quasi esordiente. All’epoca si era considerati maestri perché si aveva completato l’apprendistato e si era in grado di operare autonomamente. Da allora, richiestissimo Raffaello si spostò a Perugia e a Siena carico di commissioni, ma appena seppe delle novità pittoriche di Leonardo e di Michelangelo, impegnati in quel momento nella loro famosa sfida, non ebbe remore a lasciare tutto e cercare di trasferirsi a Firenze, per imparare. Quando si segue una propria vocazione interiore (il nostro genio/daimon), viene meno l’interesse che i nostri meriti vengano riconosciuti, nel seguirlo e realizzarlo vi è già un forte appagamento interiore, per questo si è pronti a rivestire immediatamente i panni dell’apprendista. Si è maestri per raggiunte capacità, perché si è in grado di insegnare ad altri, ma si è veri maestri quando si sa infondere nell’allievo l’entusiasmo e la bellezza dell’apprendimento, perché il vero maestro non smette mai di imparare. Studiosi attenti di Leonardo sostengono che tornò su suoi lavori precedenti, più e più volte, per perfezionarli in base a ciò che aveva imparato nel frattempo, mai pago del lavoro fatto. Il Vasari ci illumina chiaramente su questo lato del Maestro riferendoci che: «Trovasi che Lionardo per l’intelligenza dell’arte cominciò molte cose e nessuna mai ne finì, parendoli che la mano aggiungete non potesse alla perfezione de l’arte né le cose, che egli si immaginava, con ciò sia che si formava nella idea alcune difficultà tanto maravigliose, che con le mani, ancora che elle fussero eccellentissime, non si sarebbero espresse mai». Un mio caro amico pittore mi riferì un giorno, un detto che circola nel loro ambiente e cioè che non esistono quadri finiti, solo quadri abbandonati, perché si può sempre aggiungere e perfezionare facendo pensare che una vera opera d’arte è qualcosa di aperto e vivo che si realizza su legno, tela, marmo o qual si voglia materia, ma che, allo stesso tempo, opera e si sviluppa nel mondo interiore dell’artista plasmandolo a sua volta. Leonardo portò con sé la Gioconda per quattro anni, sempre perfezionandola e forse senza mai terminarla, fino in Francia dove (ahinoi!) è rimasta. È noto che la tecnica dell’affresco che necessitava un intervento rapido e sicuro entro tempi brevissimi (appunto a “fresco”) mal si addiceva alle esigenze del Maestro, che preferiva poter meditare sulla sua opera ed intervenire successivamente. Testimonianze di chi lo osservava lavorare ci riferiscono che: “…dimorava talora una o due ore al giorno e solamente contemplava, considerava ed esaminando tra sé, le sue figure giudicava”. (Matteo Bandello, Novella LVIII). Già quarantenne si mette a studiare il latino per essere in grado di interpretare i classici. Ad un certo punto si rende conto di aver bisogno di un altro livello di cognizione matematica e si impegna ad imparare dall’amico Pacioli, noto matematico, al quale disegnerà le illustrazioni del suo meraviglioso “De Divina Proportione”. Leonardo venne criticato dai suoi contemporanei per avere troppi interessi, essere troppo perfezionista e non portare a termine mai niente. In un periodo dove ancora la figura dell’artista come lo intendiamo noi non esisteva, può essere comprensibile. Ma possiamo benissimo pensare che a Leonardo il giudizio altrui interessasse poco, era più concentrato nello sviluppare il proprio talento, nel rispondere alle domande che sorgevano spontaneamente, nello sperimentare, nell’investigare i misteri della Natura. Per questo potremo appellare Leonardo come “Il Maestro” ed “Eterno Apprendista”.
Genio e la vita
Normalmente abbiamo la consuetudine di associare il sostantivo genio con l’aggettivo incompreso, abituati al fatto che genio significhi una persona che vede “oltre” i suoi contemporanei e quindi spesso non capito, visto con diffidenza e non accettato. Personalmente credo invece che la genialità possa risiedere in ogni singola persona e che, in giuste condizioni, possa emergere, ovviamente a livelli diversi ma ognuno con il proprio “genio/ daimon.”. L’idea del genio incompreso nasce, probabilmente, da quelle persone che hanno forti attitudini o talenti specifici, come potrebbe essere il classico esempio di alcuni matematici geniali, che poi, per svariate ragioni, sono portati ad avere delle difficoltà nei rapporti interpersonali, dove le regole, al contrario delle scienze esatte, non sono né chiare, né fissate e di conseguenza tendono a chiudersi nel proprio mondo fatto di leggi precise. In virtù di ciò che sappiamo per Leonardo non fu affatto così, anche se criticato a volte aspramente, visto con perplessità e accusato in varie occasioni, fu amante della vita e ne prese a piene mani. Fu dotato naturalmente di una forza e di una grazia non comuni, ascoltare il Vasari che lo magnifica, ci rende di lui una favolosa immagine: “Questo lo videro gli uomini in Lionardo Da Vinci, nel quale oltra la bellezza del corpo, non lodata mai a bastanza, era la grazia più che infinita in qualunque sua azione”. “La forza in lui fu molta e congiunta con la destrezza, l’animo e l’valore sempre regio e magnanimo”. Sappiamo che amava, cavalcare, tirare di scherma e soprattutto nuotare, cosa che egli paragonava al volare, sua massima aspirazione e idea fissa, percezione suggestiva visto che in entrambi i casi sperimentiamo una sospensione dalla gravità. Le tante novelle, che scriveva, così sottili, essenziali e argute, ci descrivono un Leonardo completamente a suo agio nella comunicazione, abile ed eloquente narratore: “Era tanto piacevole nella conversazione che tirava a sé gli animi delle genti”. Abbiamo testimonianze che amava le belle vesti, il suo modo di vestire era inusitato, portava i capelli lunghi e lunga la barba, proprio in barba alle mode dell’epoca, come spirito libero qual era, indossava ciò che più gli piaceva; vederlo passeggiare per le vie di Firenze doveva essere una visione originale ed elegante “Egli con lo splendor dell’aria sua, che bellissima era, rasserenava ogni animo mesto…”. Un’altra sua grande passione era quella per la musica: “Dette alquanto d’opera alla musica, ma tosto si risolvè a imparare a sonare la lira, come quello che dà la natura aveva spirito elevatissimo e pieno di leggiadria; onde sopra quella cantò divinamente all’improvviso.” Unito alla sensibilità musicale, si fuse il suo talento ingegneristico per generare strumenti da lui stesso fabbricati e progetti per automatizzarli. Ma il vero amore di Leonardo era per la Natura stessa, da lui elevata a suprema maestra, a punto di riferimento di ogni cosa, da cui amava trarne i segreti ma che ne rispettava profondamente i misteri “La natura è piena d’infinite ragioni, che non furon mai in isperienzia”, scrisse. Il genio ha la capacità di comprendere la vita, di accettarne i misteri, l’ignoranza che ne deriva e l’incertezza dell’umana condizione, come parte della stessa; segue l’impulso di comprenderla, non tanto per sfuggire alla sua fine ma per più, amarla. “Quando io crederò imparare a vivere, e io imparerò a morire”. “Sì come una giornata bene spesa dà lieto dormire, così una vita bene usata dà lieto morire”. (L.D.V.)
La spiritualità del Genio
Ho avuto la opportunità di partecipare, per alcuni anni in un gruppo di lavoro psicologico e in una occasione, come esercizio, tutti furono invitati a dipingere una figura con un angelo; non dimenticherò quel momento: conoscevo con una certa profondità i presenti e fui stupito di veder raffigurato in quel disegno l’immagine intima e idealizzata di loro stessi, con una tale chiarezza che oltremodo mi sorprese. Il primo lavoro di Leonardo giovinetto nella bottega del Verrocchio, come ci riferisce il Vasari, fu proprio un angelo nel quadro del Battesimo del Cristo, in basso a sinistra, in ginocchio, che regge delle vesti. A guardarlo bene, si distacca dalle figure intorno, realizzato con tutta un’altra fattura, dove già si vedono i primi accenni dello sfumato, girato leggermente di spalle, possiamo apprezzarne il profilo, di una grazia raffinatissima ed ineffabile, con lo sguardo assorto e scrutatore verso il Cristo (o chissà, verso S. Giovanni?). Forse è questa, tradotta in immagine, la visione interiore del suo sentire spirituale. “Indigitazione” è il termine che si usa per definire l’atto di indicare con la mano: l’Alberti, nel suo trattato, dichiara l’apprezzamento di quel gesto che: “…chiami con la mano a vedere”. Nei quadri di Leonardo tale gesto appare spesso, enigmaticamente, lo troviamo nel cartone preparatorio della sua opera giovanile (mai realizzata) dell’Adorazione dei Magi, nel Cenacolo, in una versione della Vergine delle Rocce, (nella seconda enigmaticamente sparisce) nel cartone preparatorio della S’ Anna (nella pittura finale sparisce anch’esso) e soprattutto nel giovane S’Giovanni, questo gesto che in altre circostanze è ammonitore, in Leonardo è un invito, un segnale, una dolce ma ferma esortazione, forse a guardare in alto: “Chi ha provato il volo camminerà guardando il cielo, perché là è stato e là vuole tornare”. (L.D.V.) Forse a non perdere di vista il vero fine: “Non si volta chi a stella è fisso” (non guarda indietro chi sta seguendo una stella). (L.D.V.) Leonardo non fu uomo di religione, ma seguace della verità: “Tanti furono i suoi capricci, che filosofando de le cose naturali, attese a intendere la proprietà delle erbe, continuando et osservando il moto del cielo, il corso de la luna e gli andamenti del sole. Per il che fece ne l’animo un concetto sì eretico, che è non si accostava a qualsivoglia religione, stimando per avventura assai più lo essere filosofo che cristiano” dice il Vasari. Nel dipingere il Cenacolo Leonardo si trovò in grave difficoltà nel raffigurare il viso del Cristo che, come di nuovo ci riferisce il Vasari, lasciò incompleto: “…non pensando poterle dare quella divinità celeste che all’immagine di Cristo si richiede”. (Vasari “Le Vite”). Leonardo, quindi, sentiva la figura del Cristo come inarrivabile, invece si risolse spesso a dipingere il S. Giovanni Battista, immagine a lui cara, fino a rappresentarlo unico soggetto, in risalto nello sfondo nero, emergendo alla luce, il dito puntato decisamente verso l’alto. Forse Leonardo si riconosceva più in questa figura religiosa, quella del precursore della Luce, colui che appunto la indica e specialmente di colui che per primo la sa riconoscere. Possiamo immaginare un’anima come Leonardo, tanto ansiosa di conoscenza, non anelare al più grande dei misteri?
Il mito del Genio
Conosciamo Leonardo con l’appellativo di Genio Universale. Questo riconoscimento e il mito che ne deriva, inizia quando a Parigi suscitarono interesse i suoi manoscritti portati da Milano nelle campagne di conquista napoleoniche, prosegue nell’800, poi esplode nell’epoca fascista; in un periodo definito come “secolo della tecnica” il poliedrico artista, scienziato, inventore fiorentino, diventava figura perfetta per incarnare i valori di quel tempo. In realtà oggi sappiamo bene che le “invenzioni leonardesche” sono perlopiù rielaborazioni di tecnologie note già a quel tempo e di ingegneri/artisti contemporanei del Maestro. Sappiamo che Leonardo li perfezionò e li ridisegnò con la sua sapiente maestria, ma sono lungi dall’ essere parto della sua mente. Sappiamo che Leonardo fece molti errori, dipinse poco, portò a termine ancora meno e la sua figura di “visionario del futuro”, sembra assai forzata. Eppure, il suo influsso carismatico continua sempre più forte e continua a ispirare gli anelanti al sapere e alla bellezza; è sua, l’immagine dipinta più famosa al mondo (la Gioconda), tanto si è impressa nell’immaginario collettivo che frotte di turisti fanno file interminabili e si accalcano per starle di fronte solo uno sfuggevole momento. La storia e la figura del Genio Universale continuano ad affascinare nel tempo; che cosa vediamo o proiettiamo in lui? Probabilmente in Leonardo vediamo l’uomo che ha seguito e ha cercato di realizzare i suoi più profondi aneliti, si è confrontato con le sue inquietudini, senza curarsi troppo dei giudizi e delle false autorità dei suoi contemporanei, ma anche della fama o dei risultati; ha amato il suo daimon e lo ha seguito, “Fece infinite di queste pazzie…” (Vasari “Le Vite”); si è fatto artista, scienziato, naturalista, ingegnere, musicista, filosofo, pur di esprimerlo, pur di esprimere quella forza che pulsava dentro che, invero, fa parte dell’intima essenza dell’uomo; è questa, una verità che si cela anche in ognuno di noi, un genio/daimon che custodiamo dentro e che, in particolari silenzi, ci invita ad ascoltarlo, con quel suo sorrisetto enigmatico di chi sa e che ci promette il sale della vita.
“Et in questo di Lionardo vi era un ghigno tanto piacevole che era cosa più divina che umana”. (Vasari “Le Vite”).
Bibliografia
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Hillman J., Il codice dell’anima, Adelphi, 1997.
Treccani, Dizionario della lingua italiana, Giunti T.V.P., 2017.
Vasari Giorgio, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, Einaudi, 2015.