Il “Giovinetto in tunica”, noto anche come il “Giovane o Efebo di Mozia”, rappresenta uno dei reperti più iconici e affascinanti rinvenuti presso l’isola siciliana di San Pantaleo (Mozia). L’isola-città è sita tra l’Isola Grande e la terraferma, immersa nelle placide e azzurre acque del Mediterraneo occidentale, al centro dell’incantevole Riserva Naturale dello Stagnone di Marsala.
Per raggiungere questa incantevole isoletta, visibile in lontananza dal litorale delle coste siciliane, è previsto un breve ma suggestivo itinerario che vale assolutamente la pena fare: dal porticciolo di Marsala un imbarcadero vi traghetterà in soli dieci minuti, attraverso la laguna, sino alle sponde antistanti. Durante il percorso in traghetto sono visibili tutt’intorno le grandi vasche di raccolta del sale (saline) e romanzeschi mulini a vento che spiccano in cielo con le loro pale dal fare minaccioso. Infatti, una delle caratteristiche peculiari di questa zona sono i fondali bassi e le acque molto salate che consentono la coltivazione e la lavorazione del sale. Scene dai colori pittoreschi mozzafiato, che lasciano letteralmente senza parole.
Mozia, un tempo prosperosa colonia fenicio-punica, è oggi rinomata per essere rimasta un’oasi naturalistica rigogliosa di vegetazione, attraversata da distese di vigneti ad alberello e detentrice di un patrimonio archeologico di inestimabile valore.
L’EFEBO IGNOTO: UNA STATUA UNICA NEL SUO GENERE
La statua dell’“Efebo di Mozia” si trova oggi ubicata al Museo Whitaker, precedentemente residenza della nobile famiglia inglese Whitaker, che agli inizi del ‘900 si trasferì nell’isola per interessi di carattere commerciale legati alla produzione ed esportazione del vino Marsala, ottenuto da un’antica e pregiata varietà di uva Grillo.
La scultura del giovane fu scoperta nel 1979 durante una campagna di scavo condotta dall’Università di Palermo. Gli archeologi ritrovarono l’opera, mutila e acefala, sepolta sotto una spessa colmata di argilla e marma calcarea nei pressi del settore nord-orientale del sito, tra l’area sacra del santuario di Cappidduzzo e la cinta muraria. Si suppone che la statua sia stata gettata intenzionalmente nella fossa di ritrovamento dagli stessi abitanti di Mozia, col fine di conservarla, durante l’assedio dell’isola da parte dei Siracusani (397 a.C.). Quando l’opera fu riportata alla luce, il volto era sfigurato, giacente accanto al corpo, mancante a sua volta di braccia e piedi. Sopra la testa furono individuati cinque perni bronzei, che hanno lasciato supporre la presenza di una corona o un copricapo posto sopra di essa.
La statua è del tutto nuova dal punto di vista tipologico, un unicum in ambiente fenicio-punico trattandosi di un reperto di chiaro influsso greco-orientale. La presenza greca nell’isola è comunque documentata da tracce visibili nei templi, nella casa dei mosaici e nelle numerose epigrafi. È molto probabile, infatti, che i greci si fossero interessati all’isola per la sua prosperità economica e la possibilità di intrattenere scambi commerciali con i Fenici.
Lo stile artistico della scultura – fisionomia del volto e capigliatura – trova affinità con l’ambiente di Fidia e allo Stile Severo. Ragione per la quale la statua è stata datata al V secolo a.C. (475-450).
L’opera trova, inoltre, confronti con le sculture del Tempio E di Selinunte e con l’ambiente artistico della Magna Grecia, con particolare riferimento all’officina di Pitagora di Reggio.
Perché si parla di “statua dei misteri”?
Nonostante le numerose ipotesi che sono state formulate al riguardo, l’origine e l’identificazione dell’Efebo di Mozia rimangono, in parte, dubbie. Chi ha riconosciuto nel personaggio una divinità, chi un auriga o un atleta vittorioso, chi persino un magistrato.
Sarà forse questo enigma, con il suo velo di mistero e indeterminatezza, a rendere la scultura del giovane, di divina bellezza, ancora più fascinosa e magnetica ai nostri occhi: un tutto tondo da osservare e ammirare sotto ogni prospettiva e angolazione possibile.
Percorrendo le sale del museo Whitaker, è impossibile non fermarvisi di fronte e rimanere abbagliati dall’eleganza marmorea di questa figura, che fiera si erge isolata nella stanza che l’accoglie – oramai nota anche come ‘La sala dell’Auriga’.
La scultura sfoggia un portamento fiero e orgoglioso. Una meticolosa attenzione ai particolari svela la maestria e finezza delle mani del suo autore e la sua sensibilità artistica: osserviamo l’acconciatura dei ricci disposti a fasce di perle, le sottilissime pieghe del chitone che aderiscono al corpo, i fasci di muscoli che si intravedono dalla veste in sottile trasparenza.
La maggior parte degli studiosi, come P.E.Arias, E. La Rocca, G. Rizza, V. Tusa, concordano nel sostenere che il famoso “Giovinetto di Mozia” rappresenti un auriga vincitore nella corsa con il carro. Alcuni di essi infatti intravvederebbero nella sua postura il gesto di brandire un frustino con il braccio destro, rivolto verso l’alto, il sinistro invece era indubbiamente appoggiato sul fianco (i resti della mano sono ancora ben visibili nel corpo della statua). Inoltre, il giovane indossa la tipica veste degli aurighi, un ampio chitone con pieghe verticali parallele che scende fino ai piedi, e una larga fascia, all’altezza dello sterno, che gira tutt’intorno al petto annodandosi con due tiranti.
L’archeologo romano Lorenzo Nigro – docente associato presso l’Università La Sapienza di Roma e dirigente delle campagne di scavo sull’isola – ha individuato nel giovane il mitico auriga Alcimedonte, comandante greco dei Mirmidoni e figlio di Laerce, menzionato in due libri (XVI e XVII) dell’Iliade omerica. Alcimedonte fu colui che passò dalla leggenda alla storia per aver condotto il carro di Achille fuori dal feroce scontro che si era scatenato fra i guerrieri troiani e achei intorno al corpo esanime di Patroclo.
“Automedonte a lui (Alcimedonte), di Diore figlio, rispose:
«Alcimedonte, e chi altri potrebbe, fra tutti gli Achivi,
regger la furia, e a freno tenere i corsieri immortali,
come quand’era vivo l’eroe pari ai Numi nel senno,
Pàtroclo? Ora su lui piombaron la Parca e la Morte.
Ma su, tu prendi adesso la sferza e le lucide briglie,
ed io discenderò, per prendere parte alla mischia».
Disse. Ed Alcimedonte balzò sopra il carro di guerra
velocemente, in pugno stringendo le briglie e la sferza.”
(Iliade, XVII Libro. Trad. Ettore Romagnoli)
Nigro sostiene di essere risalito all’identità del personaggio grazie all’iscrizione (“Alkimedon”) incisa su un vaso di ceramica attica rinvenuto in prossimità delle fondamenta del tempio (“Temenos”) attorno al “Kothon”, bacino artificiale peculiare dei porti fenici. Nel corpo del vaso – denominato “cratere di Alcimedonte” – è raffigurata una scena di simposio. È possibile che la sua produzione sia stata commissionata in Attica (Grecia) dagli stessi abitanti dell’isola di Mozia.
A parte quest’ultima ipotesi, sono state avanzate altre interpretazioni relative all’identità del giovane di Mozia. Come abbiamo precedentemente accennato, alcuni studiosi lo ricondurrebbero a un sufeta, ossia un magistrato punico; altri, invece, ritengono si tratti della personificazione di Apollo o del dio punico Melqart, corrispondente all’Eracle dei Greci.
Per quanto riguarda l’identità dell’autore, è realistico supporre che alcuni artigiani greci abbiano realizzato questa opera in una colonia grecadella Sicilia occidentale, come Selinunte o Agrigento. Ma sino ad oggi rimane difficile stabilire se si tratti di una statua ordinata su committenza da un facoltoso cittadino cartaginese di Mozia; oppure, se questa sia stata portata nell’isola come bottino di guerra dopo la distruzione, per mano dei Cartaginesi, di una delle pòleis greche di Sicilia.
CLARA FRASCA
BIBLIOGRAFIA
G. Rizza – E. De Miro, Le arti figurative dalle origini al V secolo a.C. in Sikanie. Storia e Civiltà̀ dei Greci, Milano 1985.
FONTI ONLINE
https://www2.regione.sicilia.it/beniculturali/dirbenicult/info/beniinamovibili/TpMoziaAuriga.html