Per chi è convinto sostenitore della diplomazia culturale capire il proprio tempo è fondamentale per indicare un’alternativa al modello tradizionale di relazioni tra popoli differenti, trovare la comune radice nella storia e nel tipo di società che si propone è quanto mai utile per una reciproca comprensione delle altrui identità. Solo un’attenta analisi dei nuovi fenomeni e delle storture della società contemporanea può aiutare a migliorare i nostri comportamenti come cittadini e come popolo, e ad essere vigili sentinelle delle classi dirigenti e politiche, perfetta riproduzione della comunità che si candidano a rappresentare.
Sempre più spesso i politologi si interrogano sullo stato di salute delle democrazie liberali utilizzando come indicatori la fiducia verso i partiti e la democrazia rappresentativa, la nuova richiesta di leader forti, la necessità di immediatezza nelle decisioni da assumere e l’affidabilità delle fonti d’informazione.
Secondo Sabino Cassese, giudice emerito della Corte costituzionale italiana, alla base della crisi della democrazia c’è la difficile coesistenza nel mondo di Paesi democratici e autoritari. Ciò creerebbe una sorta di confronto impari che spinge i cittadini a propendere per quei modelli politici dove le decisioni sono più rapide, non dettate da continue mediazioni e confronti che molto spesso fanno emergere le difficoltà proprie della democrazia. In un regime democratico bisogna sempre confrontarsi con i diritti dei cittadini e le loro necessità e quindi questa grande attenzione agli interessi e alle domande collettive richiedono dialogo, dibattito e rallentamenti che da molti sono visti come intralcianti. L’istantaneità a cui la tecnologia ci ha abituati, l’essere continuamente connessi con il mondo e ottenere una risposta ai nostri quesiti con una semplice ricerca su internet, in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, sembra scontrarsi con i tempi di cui una democrazia rappresentativa ha bisogno. E proprio i corpi intermedi sono i maggiori indiziati di questa sfiducia. Robert Michels preannunciava all’inizio del XX secolo: il destino del partito coincide totalmente col destino del suo leader attorno al quale è costruito tutto l’apparato politico. Se il leader-fondatore risulta vincente, carismatico, con i consensi alle spalle anche il movimento o partito avrà successo, appena la figura verticistica vivrà un momento di difficoltà il partito ne risentirà in termini di gradimento: si potrebbe sintetizzare parlando di “leader-dipendenza”. Quello che comunemente viene chiamato populismo, che ha proprio tra i suoi capisaldi la centralità della figura del leader carismatico, altro non è che neoleaderismo, dove il consenso è continuamente ricercato attraverso appelli al popolo, con la necessità di dover ridurre le “singole issue politiche” a pillole, a slogan e spot. Si perde nel tempo la storia degli appelli al popolo ma oggi questi vengono enormemente amplificati dalla Rete. Il modello politico occidentale, osserva Fareed Zakaria, ha il suo simbolo più importante «non nel plebiscito di massa, ma nella figura del giudice imparziale».
La maggior parte degli elettori naviga in Rete, tutti comunicano con tutti, affrontano qualsiasi tematica anche quando non ne hanno le basi culturali e scientifiche per poterne dare spiegazioni ad altri, ma tutto si svolge virtualmente, senza un reale confronto o ascolto delle opinioni altrui. I temi vengono gettati nell’agone virtuale senza valutare realmente il peso politico, e persino penale, di ciò che si sta scrivendo o dicendo attraverso un video e sono quasi sempre tematiche che impattano la curiosità o l’emotività del pubblico tralasciando magari questioni complicate o che incidono realmente sulla politics. La politica virtuale prevale ormai su quella reale, l’opinione pubblica che era al centro della vita politica si è trasformata in opinione digitale. La Rete è diventata in breve tempo il secondo mezzo di informazione e di formazione delle opinioni personali poiché mette a disposizione una gran quantità di piattaforme di informazione (siti, blog, all news) e consente agli utenti di esprimere la loro opinione sui social ma non solo e infine i leader politici possono parlare direttamente ai loro elettori senza il filtro dei mass media tradizionali come radio e televisione.
La discussione in internet tende infatti a incentivare gruppi omologati con l’aggregazione di persone che la pensano allo stesso modo che così vedono rafforzare le proprie opinioni mancando un concreto confronto.
La democrazia ha al proprio interno i suoi limiti e le sue debolezze, così come anche gli eventuali anticorpi, poiché spesso il concetto di democrazia assume un valore vago e impercettibile da poter degenerare in illiberalismo e autoritarismo.
La solidità del sistema liberale, secondo il politologo Yascha Mounk nel suo “The People versus Democracy”, era dovuto a tre presupposti della vita sociale: l’omogeneità delle visioni, la crescita economica e un numero limitato di modelli sociali. Con la conquista della democrazia, del suffragio universale e delle costituzioni liberali nell’Europa Occidentale si ebbe un rapido sviluppo sociale ed economico con la diffusione della tecnologia e dei mezzi di comunicazione. Proprio questi mezzi di comunicazione tradizionali fornivano notizie condivise e garantite perché le informazioni rimanevano nel mainstream secondo lo schema “da uno a molti” e la conoscenza aveva una base comune data da tv, giornali e radio, tutte fonti qualificate. Il secondo presupposto fu una crescita economica diffusa che nessuno aveva conosciuto prima, tanto da abbattere notevolmente le disuguaglianze sociali: le persone potevano così ambire a standard qualitativi di vita più elevati che in passato. Infine, il terzo fattore fu l’omogeneità sociale dettata dalla stabilità consolidata delle democrazie liberali. Per Mounk però questi tre pilastri, in particolare negli ultimi quindici anni, e più in generale nell’ultima generazione, sono stati duramente colpiti. Si sono moltiplicate le fonti d’informazione, permettendo a chiunque di divenire un’emittente al pari delle fonti qualificate e di selezionare solo ciò che desiderano ascoltare, e come abbiamo già visto, ciò ha comportato la diffusione di idee radicali ed estremiste. Nell’ultimo trentennio poi si è avuto un costante declino della crescita economica in Occidente a fronte dell’esplosione dello sviluppo specialmente dei Paesi asiatici, fino alla grande crisi del 2008 che ha destabilizzato il sistema finanziario mondiale. Chi più ha sofferto per questa crisi è stato il lavoratore dipendente e la classe media in generale, che ha visto sempre più assottigliarsi il suo benessere e si è sentito attaccato nei suoi diritti, tanto da dubitare del futuro dei propri figli. Inoltre, l’aumento dei grandi flussi migratori ha fatto sì che le società si contaminassero e alcuni sentissero come minacciata l’omogeneità della collettività, scatenando, per Mounk, l’ansia razziale e culturale. La conseguenza è quindi la disgregazione del sistema liberale con l’ascesa delle democrazie illiberali.
Se la Seconda Guerra Mondiale ha portato alla vittoria del liberalismo come risposta alle dittature che l’avevano causata, come una sorta di logica conseguenza, ci si aspettava il medesimo processo di democratizzazione anche dalle nuove economie emergenti, ma ciò non è accaduto.
La democrazia illiberale è identitaria: si ribaltano i principi che sono alla base delle democrazie costituzionali occidentali come la tutela delle minoranze a favore di un modello dove vige il diritto della maggioranza ad imporre la propria visione. Secondo Jan-Werner Müller, filosofo e storico tedesco, qualificare questi regimi come “democrazie”, seppur illiberali, offre un vantaggio retorico ai leader che le guidano, perché toglie loro l’alibi di non garantire le prassi democratiche e al tempo stesso di identificare le proprie azioni con il volere del popolo.
Dott. Niccolò Duranti
Membro del Comitato Scientifico dell’Istituto Ellenico della Diplomazia Culturale – sede di Ancona